Se fu subito chiaro che Prokofiev sarebbe diventato il nostro cavallo di battaglia, altrettanto chiaramente, fin dalle prime prove, osservammo quanto Haydn fosse uno zoccolo duro. Il padre del quartetto d’archi, rigidamente ancorato alla magistrale classica trasparenza delle sue composizioni, non si lasciava minimamente scalfire dai nostri tentativi di modellare le linee melodiche in fraseggi che fossero espressivi e convincenti: l’impressione generale che ne risultava era sempre o banale (e quindi noiosa) o eccessivamente artificiosa. Pareva che qualcosa ci impedisse di comprendere a fondo la partitura per renderle piena giustizia.
Il problema si accentuava nel secondo movimento dell’opera 20 numero 4, Un poco adagio e affettuoso in forma di tema con variazioni. Come fare per non tediare il pubblico in quella serie interminabile di ritornelli? Come inserire gli abbellimenti con gusto senza soffocare la linea principale? E l’indicazione sotto voce? Come interpretarla e che colore creare dalla nostra tavolozza di suoni per rappresentarla al meglio?
Insomma il vecchio Joseph in questo caso aveva più di un motivo per darci del filo da torcere, mentre noi povere quartettiste alle prime armi dovevamo trovare la chiave per risolvere l’impasse in fretta, prima del concorso di Rovereto, che, ormai, era alle porte.
Un giorno, studiando il solo del violoncello nella seconda variazione, stufa di lavorare sulla tecnica senza un’idea precisa di cosa volessi esprimere, lasciai che la musica si legasse spontaneamente al mio stato d’animo e finalmente trovai l’ispirazione. Alle prove ne parlai con le ragazze, sapendo che Janela, in particolare, mi avrebbe capita al volo.
Occorre precisare a questo punto del racconto che Janela ed io condividevamo allora una cotta stratosferica per un musicista dal grande talento e dall’aspetto piuttosto affascinante. Uomo maturo, prestante e colto (diciamo pure al limite del “nerd”, caratteristica che per noi innamorate era più che altro sintomo di un’eccentrica natura artistica), ci conquistò non appena lo conoscemmo, facendosi inesorabilmente spartiacque nelle nostre vite tra due periodi distinti: il “prima di lui” e il “dopo di lui”. Il problema? Un piccolo dettaglio non proprio trascurabile: era sposato.
Chiara, nonostante rimanesse, come Michaela, alquanto refrattaria al fascino del bel rubacuori, era stata colei che ne aveva trovato la definizione più calzante: – He’s the king of phrasing –, osservò una volta (non potendo negare il suo indubbio valore musicale) e da allora tra di noi lo chiamammo sempre così, il re del fraseggio.
Fine della premessa.
Dunque, all’indomani della mia rivelazione, confidai la scoperta alle altre.
– So a che cosa pensare durante il mio solo nella seconda variazione: “He will never love you”. Lo scriverò anche sulla parte.
Lo scambio di sguardi che seguì fu più eloquente di mille parole!
Janela sospirò guardandomi con un’espressione tra il compatimento e l’autocommiserazione, come per dire: “Lo so sorella, è una vera ingiustizia”.
L’occhiata scettica che si lanciarono Chiara e Michaela invece aveva tutta l’aria di: “Ecco ci risiamo, ancora lui!”
Superata la prima impressione, tuttavia, concordammo tutte sul fatto che questa nuova chiave di lettura firmata Crazy Amai World forse avrebbe potuto funzionare. Ecco che, ad esempio, se ricollegata alla nostra esperienza personale, la prima variazione, dominata dal dialogo tra secondo violino e viola, e meno introspettiva rispetto al resto del brano, raccontava qualcosa di coinvolgente: suonava come la discussione tra due amiche preoccupate per le loro sfortunate colleghe, intrappolate in un delirio amoroso deleterio e un po’ ossessivo.
Certo, dubito che Haydn avesse in mente simili chiacchiere da comari quando scrisse il pezzo, ma non è questo il punto. Il bello è permettere alle opere dei grandi compositori (e dei grandi artisti in genere) di parlarci delle nostre vite, facendo sì che sterili note incise sulla carta con la penna d’oca si animino al contatto con la realtà dei loro interpreti, anche a secoli di distanza.
Così, con l’aiuto dell’affascinante King of Phrasing, il vecchio Joseph diventò meno ostile e, piano piano, anche i famigerati affetti (emozioni stilizzate descritte tramite figure retoriche musicali precise e codificate) cominciarono a dischiudere i propri misteri.
Ah, la forza di un amore impossibile! Non perde di intensità neanche se solo sussurrato, proprio come il tema principale, quando viene riproposto alla fine, sotto voce: un’intima ammissione di sentimenti, una confidenza fatta a se stessi nella penombra, alla tenue luce di malinconiche candele.
– Sai cosa? – mi fece notare Janela qualche tempo dopo, – La vera questione è che nessuno sarà mai come lui. Io scriverò questo sulla parte: you will never find anyone like him.
E già, la sua analisi effettivamente era più accurata. Ma che ci posso fare? Colpa della mia anima ottocentesca troppo incline al melodramma.
Comunque, per non sbagliare, mi appuntai entrambe le frasi: quella di Janela all’inizio del movimento, la mia in corrispondenza del solo del violoncello.
Se qualcuno al concorso si fosse preso la briga di sbirciare sui nostri spartiti, non so che cosa avrebbe pensato di noi!
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